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Spesso passiamo l'anno in attesa di staccare dal lavoro, anche solo per pochi giorni. Le aspettative, però, per quei giorni sono alte e il loro non raggiungimento può influire negativamente sul nostro benessere post vacanza. Ma deve essere per forza così? Secondo uno studio non c'è molta differenza di felicità tra chi va in vacanza e chi no: ha senso quindi andare in vacanza? Assolutamente sì, ma dobbiamo imparare a viaggiare senza pretendere troppo da noi stessi.

Lavoriamo, lavoriamo e lavoriamo tutto l’anno solo in attesa di quei pochi giorni di riposo, le meritate ferie o il tempo che a forza ci siamo ritagliati con un attentissimo e meticoloso piano delle cose da fare. Le aspettative di solito per le vacanze sono molto alte: ci si deve divertire e riposo e relax sono d’obbligo. Non ci sono altre opzioni e, soprattutto, altri tentativi. Ma se non fosse così? Se il benessere che traiamo da questi pochi giorni non fosse sufficiente? Siamo davvero felici dopo che torniamo dalle vacanze? ... continua a leggere

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Tramonta il sogno del posto fisso, oggi i ragazzi preferiscono sacrificare carriera e stipendio in cambio di più tempo libero

Il lavoro è da onorare, celebrare, ma anche da conquistare e rivendicare secondo la propria sensibilità. Sì perché lavorare non per tutti significa la stessa cosa, da tempo anzi ha smesso di coincidere con la semplice occupazione in cui identificarsi totalmente, quasi fondersi. I ragazzi di oggi sono sempre più alla ricerca, da una parte, di un senso che valorizzi il loro ruolo in azienda, ma, dall'altra, anche di passioni e aspirazioni esterne e del tempo sufficiente per poterle assecondare. Non è un caso allora che persino in Italia, il Paese che per decenni ha basato le proprie politiche del lavoro sull'articolo 18, due occupati su tre vogliano cambiare, segno che i fenomeni della Great Resignation e del quiet quitting sono arrivati anche da noi. ... continua a leggere

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12 anni dopo il disastro della centrale nucleare di Fukushima, domani inizierà lo sversamento in mare delle acque di raffreddamento contaminate dal trizio. Ad annunciarlo è il Governo giapponese dopo un lunghissimo percorso relativo allo smantellamento della centrale.

La questione del rilascio, nonostante il parere favorevole dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) delle Nazioni Unite, da tempo è al centro di polemiche, soprattutto relative alla pesca nell’area dove avverrà lo sversamento. I pescatori giapponesi, ma anche la Cina, si oppongono alla scelta temendo di perdere enormi opportunità economiche sul pescato.

Il premier Fumio Kishida, però, tira dritto e, al netto delle condizioni meteo del mare, domani inizieranno le operazioni: l’AIEA parla di “impatto radiologico trascurabile su persone e ambiente” ma i detrattori insistono sulla pericolosità del piano di scaricare acqua che contiene trizio, una sostanza che non può essere rimossa dalla tecnologia di filtraggio.

Detto ciò, dal Giappone assicurano “massima trasparenza” in ogni livello dell’operazione e un continuo e costante sistema di monitoraggio sugli impatti negli ecosistemi oceanici. ... continua a leggere

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Le contraddizioni di un Paese meta ideale del turismo eco-sostenibile che, proprio a causa del turismo, rischia il collasso.

Anche in un’estate di ecoansie versus negazionismo ambientale, chi per qualsiasi motivo odia il caldo se ne va in Nord Europa e più in su va meglio sta o pensa di starci. Ecco allora l’Islanda, il nord più nord che presta il fianco ai tour operator più green e wild. Viaggi organizzati e avventure nel mondo, in solitaria o di gruppo, con la speranza catartica di aver annullato la paura del futuro ambientale (la serie islandese Katla ci ha fatto tremare anche queste piccole certezze ecologiche). Eppure, chi va non sa cosa trova e pensa di sapere cosa lascia, per parafrasare l’accidia alla Troisi, e, comunque, può finire per incontrare il suo vicino di casa in mezzo ai ghiacci come all’Esselunga. Statistiche poi ammorbidite dal lockdown ci dicono che a furia di cercare altrove la sostenibilità che non abbiamo stiamo contribuendo ad oscurarla lì dove prima sapevamo di trovarla.

102 mila chilometri quadrati per 330 mila abitanti e dopo anni stabili di circa 200 mila visitatori l’anno, l’Islanda da anni fa registrare incrementi di circa 500 mila visitatori in più l’anno. Una statistica Oms classifica l’Islanda tra i Paesi in cui i turisti superano gli autoctoni nel rapporto turisti per residenti all’anno. Di questo passo l’estate islandese sarà da odiare almeno quanto quella della canzone di Bruno Martino. Un rapporto sulla qualità dell’aria della European Environment Agency del 2020 dava l’Islanda come uno degli Stati europei più salubri con solo una sessantina di morti premature all’anno. Ma sarà sempre così?

Preoccupato è Roberto Luigi Pagani, curatore del blog poi libro "Un italiano in Islanda" (Sperling&Kupfer) e profondo conoscitore dell’isola. «Il rischio», spiega Pagani, «è che l’Islanda non sarà più quella dell’esperienza della natura estrema e silenziosa che l’ha fatta diventare tale finendola per farla assomigliare a un luogo del pigia pigia simile a un mercato di una città mediterranea col rischio di smarrire i motivi per cui è diventata la meta così cercata. La vacanza basata sulle mete viste in fotografia non è la soluzione». ... continua a leggere

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Era il 17 agosto 2021 quando, a due giorni dalla caduta di Kabul, in una conferenza stampa i talebani promettevano che avrebbero protetto i diritti dei media e delle donne. “I media privati possono continuare a essere liberi e indipendenti. Possono continuare le loro attività", aveva dichiarato il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid, aggiungendo: "Permetteremo alle donne di lavorare e studiare". A due anni di distanza dalla presa del potere e da quelle dichiarazioni, il paese è precipitato ormai in una spirale di repressione, e attraversa una delle peggiori crisi umanitarie al mondo.

Secondo la ACLED (Armed Conflict Location and Event Data Project), ci sono stati oltre 1000 episodi di violenza contro i civili da parte dei talebani, nel periodo che va dalla caduta di Kabul al 30 giugno scorso. Il dato pone il regime talebano tra i primi governi o Stati de facto autori di violenze contro la popolazione, secondo solo alla giunta militare del Myanmar. Un rapporto di Amnesty International dello scorso giugno ha invece messo in evidenza la pratica delle punizioni collettive in quelle zone dove si è concentrata maggiormente la resistenza ai talebani, come il Panshir. La lista di crimini di guerra e violazioni del diritto internazionale commesse nella regione è impressionante, denuncia Amnesty: torture, esecuzioni, cattura di ostaggio, incendi e detenzioni arbitrarie.

L’Afghanistan dopo il ritorno dei talebani: senza cibo e senza diritti

Secondo Human Rights Watch, la repressione dei diritti in Afghanistan sta colpendo in particolare donne e bambini. Dall’insediamento del regime, le autorità talebane stanno negando a donne e ragazze “il diritto all’istruzione, al lavoro, al movimento e alla riunione”. Il 20 dicembre 2022 è stato imposto il divieto alle donne di accedere alle università, scatenando numerose proteste nei campus. Pochi giorni dopo, il 24 dicembre 2022, è stato annunciato il divieto per le donne di lavorare con le organizzazioni non governative locali e internazionali, tra cui le Nazioni Unite. Ciò ha danneggiato gravemente i mezzi di sostentamento delle donne, rendendo praticamente impossibili i processi di monitoraggio della loro condizione.

"Le politiche misogine dei Talebani mostrano un totale disprezzo per i diritti fondamentali delle donne", ha dichiarato Fereshta Abbasi, ricercatrice sull’Afghanistan di HRW. "Le loro politiche e restrizioni non danneggiano solo le donne afghane che sono attiviste e difensori dei diritti, ma anche le donne comuni che cercano di vivere una vita normale".

Aggiungendosi a decenni di guerra, eventi climatici estremi e disoccupazione diffusa, le restrizioni hanno contribuito a peggiorare la crisi alimentare nel paese. Secondo i dati a disposizione delle Nazioni Unite, oltre 28 milioni di persone, pari a circa due terzi della popolazione, necessitano assistenza umanitaria. Quattro milioni sono gravemente malnutrite; di queste, 3,2 milioni sono bambini sotto i cinque anni. "La popolazione afghana sta vivendo un incubo umanitario sotto il dominio talebano", ha dichiarato Fereshta Abbasi. ... continua a leggere

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OSMit Sabato 17 Giugno (GEOdaysIT 2023 Bari)

  • Wikimedia Italia - Cosa fa WMI per gli OSMer?
  • Mappatura collaborativa, ragazze e valorizzazione territoriale: il progetto AcquaMap
  • I dati di OpenStreetMap a scopo turisticoProgetti OpenStreetMap all'Istituto Morosini Manara di Milano
  • L'esperienza con il Centro Unico Emergenze (CUE) della Provincia di Trento
  • Data Pipeline Orchestration con Apache Airflow
  • OSM-Wikidata Map Framework
  • presentazione cOSMopolIT
  • OpenStreetMap per Neofiti: Iniziare a mappare

fonti:

Grazie a @wikimediaitalia@framapiaf.org per l'organizzazione!

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L’Autorità di bacino del Ceresio è intervenuta nella mattina del 18 agosto per effettuare un sopralluogo sul lago Ceresio, il lago sito nell'omonima località nel Varesotto, al confine con la Svizzera, dopo la segnalazione di avvistamento di alcune piccole meduse. Un avvistamento piuttosto insolito per i laghi della Lombardia, che ha suscitato parecchia curiosità e invero pure preoccupazione fra i residenti e i tanti turisti che frequentano la zona. ...

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crosspostato da: https://kbin.social/m/worldnews@lemmy.ml/t/354192

(Traduzione integrale)

Le persone più ricche d'America sono anche tra i maggiori inquinatori del mondo, non solo a causa delle loro enormi case e dei loro jet privati, ma anche a causa dei combustibili fossili generati dalle aziende in cui investono il loro denaro.

Un nuovo studio pubblicato giovedì sulla rivista PLOS Climate ha rilevato che il 10% più ricco degli americani è responsabile di quasi la metà dell'inquinamento da riscaldamento del pianeta negli Stati Uniti e ha invitato i governi ad abbandonare le tasse "regressive" sull'intensità di carbonio di ciò che si acquista e a concentrarsi invece sulla tassazione degli investimenti che inquinano il clima.

"Il riscaldamento globale può essere una cosa enorme, travolgente e nebulosa che sta accadendo nel mondo e si ha la sensazione di non avere alcun potere su di esso. In un certo senso si sa che si sta contribuendo in qualche modo, ma non è affatto chiaro o quantificabile", ha dichiarato Jared Starr, scienziato della sostenibilità presso l'Università del Massachusetts Amherst e autore del rapporto.

Questo studio aiuta a costruire un quadro più chiaro della responsabilità individuale, andando oltre i consumi delle persone", ha dichiarato alla CNN.

A tal fine, i ricercatori hanno analizzato enormi serie di dati relativi a 30 anni per collegare le transazioni finanziarie all'inquinamento da carbonio.

Hanno esaminato l'inquinamento da riscaldamento del pianeta prodotto dalle operazioni dirette delle aziende, oltre a quelle relative all'impatto climatico delle aziende più a valle della catena di approvvigionamento - ad esempio, la maggior parte delle emissioni di una compagnia petrolifera si verifica quando i suoi clienti bruciano il petrolio estratto.

In questo modo si è ottenuta un'impronta di carbonio per ogni dollaro di attività economica negli Stati Uniti, che i ricercatori hanno collegato alle famiglie utilizzando i dati di un'indagine demografica che mostrava i settori in cui le persone lavoravano e il loro reddito da salari e investimenti.

Hanno scoperto che il 10% più ricco degli Stati Uniti, ovvero le famiglie che guadagnano più di 178.000 dollari, sono responsabili del 40% dell'inquinamento causato dall'uomo e dal riscaldamento del pianeta. Il solo reddito dell'1% superiore - famiglie che guadagnano più di 550.000 dollari - è stato collegato al 15-17% di questo inquinamento.

Il rapporto ha anche identificato i "super-emettitori". Si tratta di persone che appartengono quasi esclusivamente allo 0,1% più ricco degli americani, concentrate in settori come quello finanziario, assicurativo e minerario, e che producono circa 3.000 tonnellate di inquinamento da carbonio all'anno. Per mettere questo dato in prospettiva, si stima che le persone dovrebbero limitare la loro impronta di carbonio a circa 2,3 tonnellate all'anno per affrontare il cambiamento climatico.

"Quindici giorni di reddito per una famiglia dello 0,1% genera tanto inquinamento da carbonio quanto una vita intera di reddito per una famiglia del 10% inferiore", ha detto Starr.

L'impatto sul clima non riguarda solo l'entità del reddito delle persone, ma anche le industrie che lo generano. Secondo il rapporto, una famiglia che guadagna 980.000 dollari da alcune industrie di combustibili fossili, ad esempio, sarebbe considerata una super-emettitrice. Ma una famiglia che guadagna dall'industria ospedaliera dovrebbe guadagnare 11 milioni di dollari per produrre la stessa quantità di inquinamento che riscalda il pianeta.

Gli autori del rapporto invitano i politici a ripensare il modo in cui utilizzare le tasse per affrontare la crisi climatica.

Le tasse sul carbonio che si concentrano su ciò che le persone acquistano - il cibo che mangiamo, le auto che guidiamo, i vestiti che compriamo - "puniscono in modo sproporzionato i poveri, mentre hanno un impatto minimo sulle persone estremamente ricche", ha detto Starr. Inoltre, non tengono conto della fetta di ricchezza che i ricchi spendono in investimenti piuttosto che in acquisti.

Secondo il rapporto, i governi dovrebbero invece concentrarsi su tasse che colpiscano gli azionisti e gli investimenti ad alta intensità di carbonio. Anche se sarà "una richiesta politica difficile", ha riconosciuto Starr, soprattutto perché i più ricchi tendono ad avere un potere politico sproporzionato.

In tutto il mondo sono state avanzate molte idee per tassare le emissioni di carbonio, tra cui le imposte sulle società di combustibili fossili e le imposte sul patrimonio, ma poche si sono rivelate politicamente valide.

Kimberly Nicholas, professore associato di scienze della sostenibilità presso la Lund University in Svezia, che non ha partecipato alla stesura del rapporto, ha dichiarato che lo studio contribuisce a rivelare quanto il reddito, soprattutto quello derivante dagli investimenti, sia strettamente legato all'inquinamento che riscalda il pianeta.

A volte, quando si parla di come affrontare la crisi climatica, si parla di controllo della popolazione, ha dichiarato Mark Paul, un economista politico della Rutgers University che non ha partecipato allo studio. Ma studi come questo "mettono in luce l'enorme responsabilità che i ricchi hanno nel generare e perpetuare la crisi climatica", ha dichiarato alla CNN.

Identificare i principali attori dietro la crisi climatica è fondamentale per i governi che devono sviluppare politiche che riducano l'inquinamento da riscaldamento del pianeta in modo equo, ha aggiunto. Anche se non è d'accordo con l'affermazione dello studio secondo cui le tasse sul carbonio sui consumi colpiscono in modo sproporzionato i poveri, ha detto che ci sono modi per implementarle in modo equo.

L'impatto climatico sproporzionato dei ricchi, ovviamente, non è solo un problema degli Stati Uniti.

A livello globale, l'inquinamento che riscalda il pianeta prodotto dai miliardari è un milione di volte superiore a quello prodotto dalla media delle persone al di fuori del 10% più ricco del mondo, secondo un rapporto dello scorso anno dell'organizzazione no-profit Oxfam.

"Al momento, il modo in cui l'economia funziona è che prende i soldi e li trasforma in inquinamento climatico che sta destabilizzando la vita sulla Terra", ha detto Nicholas. "E questo deve fondamentalmente cambiare".

originale (inglese)

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Mettete via per un attimo pinne e maschera e segnate a mente questa data: 14 agosto 1893. Esattamente 130 anni fa, questo stesso giorno, debuttò la prima targa al mondo. Accadeva a Parigi in virtù di un’ordinanza della Prefettura che stabiliva testualmente: “Ogni autoveicolo meccanico dovrà recare una targa metallica, in caratteri visibili”. Era l’alba insomma della motorizzazione e della sua regolamentazione, che ancora oggi seguiamo quando siamo al volante. ...

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In Italia la quasi totalità degli incendi ha cause umane, intenzionali o meno. Quelli originati da cause naturali, come fulmini e fenomeni di autocombustione, sono rarissimi, mentre molto più spesso sono dovuti ad azioni involontarie: possono partire dalle scintille causate dai freni di un treno, ad esempio, o dal surriscaldamento della marmitta di un’automobile a contatto con l’erba secca, o ancora da un rogo per bruciare delle sterpaglie in campagna. Si stima però che nella maggior parte dei casi le cause degli incendi siano dolose, anche se è difficile trovare i responsabili.

Gli incendi che in questo periodo vengono appiccati in molte zone d’Italia, soprattutto nelle regioni del Sud, non sono però imputabili a piromani, se non in una percentuale molto piccola. La piromania è infatti un disturbo patologico, riconosciuto dal DSM, il Manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali. In particolare fa parte di quei disturbi «da comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e della condotta». Il piromane è attratto dal fuoco, ma anche dagli strumenti per accenderlo e governarlo, è condizionato da un impulso irrefrenabile, non è spinto da nessuna ostilità verso qualcuno: l’impulso si placa solo appiccando l’incendio. È un disturbo inserito nella sezione di cui fanno parte la cleptomania, la ludopatia o il gioco d’azzardo patologico.

Secondo il DSM non può essere considerato piromane chi invece appicca incendi per soldi, ideologia, vendetta o per vantaggio personale. Si tratta, in questi casi, non di piromani ma di incendiari. Le persone che stanno appiccando incendi in questo periodo sono quindi prevalentemente incendiari, come ha spiegato al Giorno Gianfilippo Micillo, dirigente del servizio antincendi boschivi dei vigili del fuoco, ex forestale. «Un incendio su due è collegato alla disattenzione, o a pratiche agricole sbagliate. Il resto si spiega con una sola parola: incendiari», ha detto. ... continua a leggere

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